Le questioni devolute alla Corte riguardano: a) la natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti dei lavoratori a titolo di emolumenti dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro da parte della società cedente in caso di accertamento giudiziale della illegittimità della cessione del ramo d’azienda cui essi erano addetti; b) la detraibilità o meno, una volta tanto accertato, di quanto percepito dai lavoratori a titolo di retribuzione per l’attività prestata alle dipendenze della società cessionaria del ramo d’azienda.
La prima questione trova soluzione nel senso della natura retributiva e non più risarcitoria sulla scorta dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione (sent. 7 febbraio 2018, n. 2990: “In tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni,…, a decorrere dalla messa in mora”.). A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda.
Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già) cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.
La Suprema Corte, nel risolvere la seconda questione, ha quindi affermato che, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
La pronuncia arriva alla predetta soluzione sulla base di un ampio e coerente percorso argomentativo logico-giuridico di effettività del dictum giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101 Cost., comma 2), che non ammette svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto priva di efficacia per il protrarsi dell’inosservanza senza reali conseguenze.
Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, nè tanto meno veicolare strumenti di coercizione indiretta finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte di un esercizio improprio delle prerogative datoriali.
(Studio Legale Associato Bitelli – 2/10/2019)