La L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, a cui rinvia il comma 7 della stessa legge, nel disciplinare il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c., comma 2, dispone che – oltre all’annullamento del recesso e alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato – il datore di lavoro sia condannato “al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, dedotto l’aliunde perceptum e percipiendum, prevedendo che “in ogni caso” la misura di detta indennità “non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”.
La norma deve essere interpretata nel senso che il limite delle dodici mensilità, anche per l’assenza di previsione di una “forbice” tra un minimo ed un massimo, e al di là di una formulazione che, con il richiamo ad una misura che “non può essere superiore”, potrebbe suggerire l’ipotesi di un potere discrezionale nella sua liquidazione del giudice di merito, opera a tutela del datore di lavoro, nel caso in cui la durata del periodo intercorrente tra il licenziamento e la data dell’ordine giudiziale di reintegrazione, in relazione al quale competono al lavoratore le retribuzioni, venga ad essere superiore all’anno.
La Cassazione chiarisce che il fatto di non poter essere (la misura dell’indennità) superiore a dodici mensilità ha il suo, necessario e unico, termine di confronto nella (eventualmente) maggiore estensione del periodo considerato, svolgendo una funzione contenitiva di effetti economici destinati a incidere anche in misura molto rilevante sul debitore in ragione di sviluppi ed eventi allo stesso non addebitabili e comunque non rientranti nella accertata illegittimità della sua condotta.
(Studio Legale Associato Bitelli – 3/10/2019)